Per la seta scatta l’allarme sui costi
Cina e superdollaro da una parte. Le grandi griffe dall’altra. Per i produttori di tessuti serici italiani il momento non è certo dei più propizi, stretti come sono tra gli aumenti a doppia cifra della materia prima e il sostanziale rifiuto dei clienti finali nell’accettare l’adeguamento verso l’alto dei listini. Complice una riduzione dell’offerta di seta di alta qualità, di cui la Cina detiene il quasi-monopolio, da alcuni mesi i listini hanno imboccato la strada del rialzo, con effetti amplificati dalla rivalutazione recente del dollaro, valuta con cui è scambiata la materia prima.
«A maggio – spiega Sergio Arcioni, presidente della categoria tessile-abbigliamento di Confindustria Lecco e Sondrio – per un chilo di prodotto bastavano poco più di 47 euro, diventati 53 a ottobre, quasi 56 ora, alla luce della corsa recente della valuta statunitense: siamo vicini ad un aumento del 20%».
Variazione % tendenziale (Fonte: SMI)

Il problema è però “a valle”, sul mercato. Dove i clienti finali, spesso i grandi marchi del lusso internazionale, rifiutano di accettare prezzi d’acquisto più elevati. «No, in generale direi che non c’è molta sensibilità – spiega il presidente dell’Ufficio Italiano Seta Giuseppe Bianchi – e anzi, paradossalmente la tendenza è quella di chiedere riduzioni di prezzo. Il che è paradossale, se pensiamo che mediamente per un produttore di tessuti serici l’incidenza della materia prima sul prezzo di vendita è nell’ordine del 30-40%. È chiaro che questa situazione pone problemi in termini di redditività aziendale, tra le aziende c’è grande preoccupazione».
La seta storicamente rappresenta il punto di forza del distretto tessile comasco, forte di 2,3 miliardi di ricavi (un terzo nelle produzioni seriche), 1200 imprese e 18mila addetti, con la produzione serica locale a rappresentare l’80% dell’intero output europeo.
Seta greggia cinese. Prezzo in USD/Kg (Fonte: Camera di Commercio di Como)
La rivalutazione del dollaro, che offre certamente vantaggi competitivi per le commesse dirette verso Washington, mitiga in parte l’aumento indotto dei costi ma l’effetto netto resta negativo, a maggiore ragione preoccupante in un momento di mercato già non particolarmente brillante. Nel primo semestre la tessitura serica nazionale ha visto calare del 2,2% i propri ricavi, con notizie appena un poco più confortanti per gli ordini, risaliti del 3,8% nel secondo trimestre dopo un calo analogo tra gennaio e marzo.
«I clienti fanno finta di non capire – aggiunge Arcioni – e gli effetti sono già visibili. L’altro giorno ho perso un ordine proprio perché il cliente finale, un grande marchio del lusso, ha rifiutato di accettare un aumento. E non parliamo di realtà in difficoltà ma di gruppi con ricarichi mostruosi».
Per capire su quali livelli si stabilizzeranno i prezzi occorrerà attendere il prossimo “raccolto” di bozzoli in Cina, così come l’evoluzione futura del dollaro. Scenario incerto che tiene i produttori in apprensione.
«Il rischio – spiega Bianchi – è che i clienti si indirizzino verso altri prodotti marginalizzando la seta». «Potrebbero puntare sulla viscosa – aggiunge Arcioni – aggravando il trend negativo dell’ultimo periodo: 15 anni fa si lavoravano in Italia cinque milioni di chili di seta, ora meno di un milione. Il rischio è quello di consegnare il mercato ai cinesi».
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