La rivoluzione deve essere prima di tutto culturale
A Napoli c’è vita. Il numero delle startup cresce più velocemente che nel resto d’Italia, mentre la pratica di brevettare innovazione è superiore alla media nazionale, dice EY. Le aziende eccellenti che alimentano un ecosistema dell’innovazione aperta e profondamente contemporanea non mancano, a partire dalla StMicroelectronics. Del resto, ci sono dipartimenti di ricerca universitari eccellenti, secondo le valutazioni dell’Anvur, come l’ingegneria della Federico II, dove Giorgio Ventre ha sviluppato una strategia significativa per servire alla terza missione del suo ateneo.
E naturalmente non può non essere citata in proposito la riuscita operazione di attrazione della scuola per sviluppatori di applicazioni della Apple. Infine, le aziende innovative, esportatrici, connesse al mercato internazionale, esistono e funzionano, ricorda Massimo Deandreis, economista che dirige l’Srm del gruppo Intesa San Paolo. Ma le “eccellenze” riusciranno a trascinare il territorio e la sua complessa economia, o resteranno casi isolati? I dati complessivi sulla digitalizzazione registrati da EY mostrano che la Campania naviga nella zona bassa della classifica italiana, mentre l’Italia come si sa naviga nella zona bassa della classifica europea.
E poiché nel millennio la spesa pubblica per la ricerca universitaria si è ridotta in generale, mentre gli studenti universitari diminuivano, in corrispondenza con la contrazione generale del Pil e della produzione industriale nazionale, è reale il rischio che si formi una doppia realtà, anche in Campania: una realtà nella quale una parte delle aziende è connessa al mercato globale, alla sua cultura e alle sue pratiche, e quindi compete, innova, cresce, mentre un’altra parte delle imprese si trova a vivacchiare, in un mercato locale in contrazione. Esiste un modo per ridurre questo rischio e aumentare le probabilità che le aziende e i lavoratori passino nella dimensione internazionale, digitale, innovativa nella quale si può crescere?
La risposta è un potenziale “sì”. Ma a condizione che ci si renda conto concretamente di che cosa significa “industria 4.0”. Jean-François Mathieu, responsabile del segmento industriale di Ups in Europa, osserva che “industria 4.0” significa un crescente ricorso all’ecommerce tra imprese (un mercato destinato a valere 1,1 migliaia di miliardi di dollari entro il 2020) e una sempre maggiore domanda di assistenza post-vendita. Occorre adattare le organizzazioni a questa situazione tecnica, ma impegnandosi in questa direzione trovano nuove opportunità anche le imprese che vivono nelle filiere avanzate pur non essendone capofila. L’aggancio dei servizi avanzati per l’industria è uno dei sistemi per trovare il modo di farsi trascinare dalle locomotive. Del resto, spiega Luigi Nicolais, presidente di Material, può anche darsi che i processi innovativi riducano i posti di lavoro, ma è chiaro che la progettazione e realizzazione di nuovi prodotti abilitata dalle tecnologie digitali, invece, crea nuovi posti di lavoro e nuove imprese innovative. E l’Italia ha un campione in casa per la microelettronica che può servire a questo scopo: la StMicroelectronics, che l’amministratore delegato italiano, Carmelo Papa mantiene in rotta di interazione anche con gli ecosistemi innovativi di Napoli e Catania.
Ma la condizione delle condizioni è culturale. Stare al passo dell’industria 4.0 significa invertire la rotta sulla politica per l’università e per i laureati. Aumentare – e non più ridurre – gli investimenti in ricerca è fondamentale per generare il valore aggiunto tipico dell’economia della conoscenza. E aumentare – non più ridurre – il numero di laureati è obbligatorio per generare il ceto di lavoratori necessario a questo contesto industriale tanto culturalmente intenso.
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