Il 2017 sarà il salto di un’epoca. Con i «sommersi» c+he tentano di salvarsi

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By Federdat Gennaio 14, 2017 19:04 Updated

Il 2017 sarà il salto di un’epoca. Con i «sommersi» c+he tentano di salvarsi

Mai come quest’anno l’inizio coincide con la sensazione di salto d’epoca. Sia lo si guardi dall’alto dei poteri geopolitici, Trump, Putin, la Cina, l’Europa…, che inoltrandosi nella turbolenza dei mercati, globalizzazione selettiva, geoeconomia, finanza… per arrivare alla vita quotidiana, alla civiltà materiale di Braudel, con la micro fisica dei poteri ed a ciò che resta tra economia e politica. Gli analisti dell’ipermodernità che avanza ci dicono che in mezzo ci sta la “rete”. Che interconnette poteri, mercati e vita quotidiana con la sua verità e post verità, con i suoi algoritmi selettivi, capace di turbare le elezioni americane o di risolvere la crisi post democratica con movimenti di partecipazione dal basso.

Raccontando territori e vite minuscole la parola chiave di tanti comportamenti collettivi mi pare “sommerso”, nella sua discontinuità di fine secolo: da sommerso ascendente a sommerso carsico. Dove riappare il tema del rendersi invisibili ai poteri, ai mercati, alle tasse. E non mi riferisco solo alla questione dei tanti precipitati nel sommerso delle povertà o dei senza casa, a cui dà visibilità la voce calda del Papa o il gelo di questi giorni… Mi riferisco alle lunghe derive economiche del sommerso ascendente che hanno innervato il fare impresa: i distretti, le filiere e le piattaforme produttive del nostro capitalismo.

Ragionare di sommerso ascendente o di sommerso carsico, in parte, dà risposte all’interrogativo “che fine ha fatto il capitalismo italiano” che Beppe Berta si pone nel suo libro analizzando le grandi imprese e le politiche pubbliche. Raccontare il sommerso ascendente dai tardi anni 60 al nuovo secolo sembra, nel piccolo, una epopea da far west. Contadini che nella migrazione interna si fanno operaio massa, operai specializzati che dal sottoscala emergono facendo capannoni e disegnando con i sindaci aree industriali che si fanno distretto, cooperative di consumo e di lavoro che diventano grandi gruppi della distribuzione o della produzione, la piccola borghesia si fa ceto medio come colse l’analisi di Sylos Labini. Dal mutualismo di prossimità del familismo ci si rende visibili per prendere l’ascensore del welfare, molto all’italiana, in un mix di pensioni, famiglia e statualità. Si mette al lavoro la famiglia, si risparmia, si investe nella casa di proprietà, oltre che nel capannone e poi nei buoni postali, nelle banche locali, partecipando con il vestito da festa alle assemblee in cui si pesano azioni e Bot. Si emerge, si diventa popolo dei Bot, si diventa obtorto collo contribuenti se si vuol essere capitalismo molecolare e ceto medio legittimato. Alimentando così torrenti di composizione sociale nel fiume del fare società ed economia… Il fare grande sindacato e rappresentanza di impresa dalla Confindustria al commercio e all’artigianato: la società di mezzo. Riuscendo a rendere visibile il nuovo torrente problematico delle migrazioni che, nel tardo 900, emerge con la figura del lavoratore immigrato nelle fabbriche e con le badanti nelle case.

Questa voglia collettiva di essere visibili nel fare economia e società non è più. Per molti non ha significato inclusione nella nuova epoca della globalizzazione selettiva. Migliaia di imprese hanno chiuso i battenti, milioni di posti di lavoro sono andati persi, molti sono tornati nel sottoscala e nell’economia informale. So bene che chi ha superato la selezione oggi ragiona di industria 4.0, cui tutti guardiamo con speranza. Ma basta interpellare le rappresentanze per capire il loro essere spaccate nell’accompagnare la competizione dei primi e nel rincorrere la disperazione degli ultimi. Vale anche per il sindacato, che firma accordi innovativi con le medie imprese e pochi grandi gruppi sul welfare aziendale e sulla formazione al “lavoro ibrido” fatto di manualità, informatica e robotica, mentre in basso si ritrova i voucher e i Cobas di quelli che non vogliono diventare invisibili. E per il mondo della cooperazione, ipervisibile in alto con grandi gruppi assicurativi e in basso con false cooperative dei lavori ai margini della logistica e a volte, tristemente, speculando sui profughi.

Così si è scomposto e ricomposto l’operaio massa. Si svuota l’invaso dei ceti medi con cui si è rotto il contratto non scritto che rendeva visibile le vite della piccola borghesia. Per pochi verso l’alto, e li chiamiamo manager, per molti verso il basso con l’incertezza per i figli… L’università non basta più, servono i master e chi può li manda all’estero per avere futuro, molti se li ritrovano in casa sperando non diventino neet. Le azioni delle banche e i Bot non sono più, quando non sono scomparse le banche stesse con le loro assemblee di popolo… La borsa poi…

Rimane la casa o le case, quando non si sono svendute per evitare il fallimento dell’impresina. Ed è così che ci si “aerbirizza” facendosi affittuari per studenti e turisti di prime e seconde case che, nella loro visibilità, sono diventate un costo. Si “uberizzano” i lavoratori autonomi di prima generazione che fanno il salto al lavoro autonomo di terza generazione, quello della gig economy dei lavoretti offerti in rete dai padroni degli algoritmi. Quando non ci si ritrova a lavorare per start up che organizzano il lavoro domestico a domicilio o la consegna di cibi pronti. Ed è con la rete, il suo essere contemporaneamente ruota della fortuna e ruota del criceto, che si confrontano i giovani nel loro esodo verso un altrove di paesi e di opportunità. In quella che il grande Bauman definiva la lotta di classe per apparire. Raccontiamo spesso le storie di successo all’estero dei nostri giovani, così come delle start up che arrivano in borsa o sono acquisite dai padroni delle rete o di makers che rivitalizzano la fabbrica diffusa. Ma i tanti smanettoni al lavoro sono spesso invisibili e sommersi, sono partite Iva a basso reddito. Anche la composizione sociale dei migranti è cambiata. Oggi li definiamo profughi e per tanti di loro è questione di rimanere sommersi per andare altrove o evitare il rimpatrio. È una composizione sociale del disincanto, minoritaria nella società dell’apparire, che alimenta incertezza nel futuro che si fa rancore dei sommersi verso i salvati. Così la società dell’incertezza alimenta il populismo. Lo si svuota con un lavoro sociale di lunga lena, di rappresentanza e di politica di ricostruzione della coesione sociale. Ricordandoci che senza coesione non si fa società, né si ricostruisce tessuto economico per competere nel mercato.

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