Il demansionamento evita il licenziamento
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Da alcuni autorevoli pareri, sembra che lo strumento del demansionamento stia rapidamente prendendo piede, andando a sostituire il licenziamento, che in passato era invece più praticato.
Sebbene il Jobs Act, e più precisamente l’art 3 del dlgs 81/2015, abbia inserito il licenziamento per motivo oggettivo ed il demansionamento come strumenti a favore delle aziende, tali novità normative riguardano unicamente i contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti che siano stati stipulati successivamente all’entrata in vigore del Jobs Act e della riforma Fornero (7 Marzo 2015).
Tuttavia, la sentenza 26467 depositata il 21 dicembre 2016, stabilisce che il datore che taglia posti di lavoro, perché esternalizza un servizio che prima era svolto da propri dipendenti, deve dimostrare che, al momento del licenziamento, non erano disponibili posizioni lavorative di pari livello che il dipendente potesse ricoprire e che abbia provveduto ad offrire un demansionamento allo stesso dipendente senza successo.
La medesima sentenza specifica che non spetta al lavoratore proporre il demansionamento, in mancanza di una proposta da parte del datore, e sottolinea che anche il repechage, ovvero la prelazione in caso si liberino nuovi posti successivamente al licenziamento, è chiaramente un obbligo del datore.
Sebbene la sentenza faccia chiaro riferimento al Jobs Act ed alla riforma Fornero, essa si riferisce a fatti accaduti nel 2011, dunque precedenti alla novella normativa, il che spinge a considerare in un’ottica diversa anche i contratti stipulati precedentemente alla riforma del Lavoro introdotta da Renzi.
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