Come cambia la geoeconomia mondiale e il ruolo dell’Italia
I gesti di Donald Trump – l’incontro con Theresa May e i dialoghi a distanza con Vladimir Putin – accelerano i processi di disgregazione del vecchio ordine mondiale. E modificano il senso di isolamento e di marginalizzazione dell’Unione europea in generale e dell’Italia in particolare sulle mappe che vengono disegnate ogni giorno, con tratto rapido e violento, dalla mano del neopresidente americano che, mentre firma “executive orders” e compone numeri telefonici, cambia la geo-economia internazionale. L’uscita dal TTP e l’evidente stato comatoso del TTIP rappresentano due strappi irreversibili nell’ordito del libero commercio, che non è soltanto una ideologia illuminista e elitaria ma che è anche una pratica reale con cui la fascia più strutturata e sofisticata dell’economia europea e italiana è riuscita, negli ultimi venticinque anni, a mantenere un piede nella manifattura media e medio-alta. La fine del sodalizio storico fra Stati Uniti e Europa, manifestato sul piano militare dall’idea che la Nato sia obsoleta e sul piano politico dal plauso di Trump alla Brexit, manda i titoli di coda sulla cooperazione fra Washington e Bruxelles.
Le cose cambiano. Le sanzioni decise insieme dagli Stati Uniti e dall’Unione europea, che hanno ridotto i flussi commerciali da e con la Russia a partire dal 2014, sono costate non poco alla piccola Italia. Nel 2008, le nostre esportazioni nella Federazione Russa valevano 10,44 miliardi di euro. Nel 2009, anno della maggiore caduta del commercio mondiale, sono crollate a 6,41 miliardi. Poi, hanno sperimentato una graduale risalita fino al 2013, quando il loro valore si è attestato a 10,74 miliardi di euro. Nel 2014, ecco il calo a 9,48 miliardi e, nel 2015, la flessione rovinosa a 7 miliardi di euro. Nei primi 10 mesi del 2016, il nostro export si è fermato a 5,43 miliardi di euro. Gli agricoltori, i produttori di scarpe e gli industriali del lusso hanno visto, a Mosca, ridurre la presenza dei loro prodotti sulle bancarelle del mercato all’ingrosso di Hlebnikovo o nelle boutique dell’alta moda di Tretyakovsky Proezd. Tutto questo succedeva mentre la Germania, ambigua nel recitare la parte di leader dei processi economici e politici comunitari e allo stesso tempo nell’interpretare l’arte della contraddizione quando la contraddizione coincide con i suoi interessi nazionali, concordava con il Cremlino il raddoppio del gasdotto North Stream. Al netto di ogni valutazione sulla efficacia del metodo delle sanzioni per condizionare Putin, per la piccola Italia oltre al danno c’è stata anche la beffa. Con la nostra manifattura penalizzata dalle sanzioni. E la forza energetica della grande Germania, invece, rinsaldata. Ora queste asimmetrie interne all’Unione europea rischiano di perdere significato reale. Theresa May, che a Londra deve gestire una colonia di finanzieri e intellettuali russi non sempre favorevoli – per usare un eufemismo – alla democratura di Putin, ha invitato Trump alla prudenza. L’asse fra Washington, Londra e Mosca sembra però delinearsi. Con il rischio, per l’Unione europea, di rimanere sempre più sola. In un mondo con commerci meno fluidi di un tempo. Una manifattura destinata a rinserrarsi nei confini nazionali, come raccontano sul penultimo numero dell’Economist l’editoriale “In retreat” e le quattro pagine “The retreat of the global company”. Nuovi Masters of the Universe. E, noi, ancora più piccoli e spersi.
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